| Critiche    Mirta  Maranca  alla scoperta dei misteri dell’Io.
 Leo Strozzieri.
 Thomas Mann è solo un pretesto , poiché il silenzio carico di mistero e quel fantastico andirivieni tra eros e thanatos appartiene per costituzione a Mirta Maranca , giovane artista pescarese.Che abbia davanti agli occhi le pagine sublimi de “La morte a Venezia ” del grande romanziere , o al contrario l’artista rincorra fantasticamente i suoi pensieri di carattere esistenziale, è la stessa cosa: sempre fa da sfondo alla sua ricerca un ampio retroterra simbolico, metaforico, in grado di generare forti sensazioni e pienezza di significati,nonché abissi di prospettive che danno l’idea di un viaggio alla scoperta dei misteri dell’io.
 Questa , a mio avviso la connotazione di fondo che si legge nei suoi dipinti ed ancor più nelle sue acqueforti: una passione irrefrenabile per gli eventi dello spirito, sicchè l’artista , fornendo un saggio probante di grande maturità, non si accontenta della registrazione del fenomeno, della superficie ; oltre il perimetro esiste in lei la costante tensione all’enigma del mondo interiore, tenuto alquanto in ombra nella storia dell’arte fino all’avvento del Simbolismo ed ancor più del Surrealismo. Dal muro del silenzio che Maranca raffigura emergono archetipi figurali (la maschera ne è il prototipo) che rendono a meraviglia il sentimento della vertigine dell’essere sottoposto allo scrimolo del nulla.
 L’opera pittorica e quella grafica in definitiva sono il volto, gli spazi, i fantasmi interiori, gli abbandoni lirici, talora anche dotati di messianico languore, il visionarismo , i giochi ancora non pienamente giocati dalla sua giovane esistenza nella quale lo spettatore è invitato e , direi,costretto a specchiarsi in curva posizione narcisistica.
 Sono opere, le sue, eseguite per istoriare il suo e il nostro inconscio, che sappiamo essere perennemente in fecondità, come dimostrano le contraddizioni ed i fantasmi conturbanti, nonché le passioni mostruose che l’artista pittoricamente esterna con una pennellata forte, energetica, espressionistica quasi, con non rare incursioni entro il perimetro materico ed orgiastico della poetica informale.
 Una pittura austera, che nulla concede al sentimento o alle tentazioni decorative. Nelle stesse opere calcografiche dedicate a “La Morte a Venezia”, l’indecifrabile sensualità di  una città sì romantica, è sopraffatta da un tenebroso e penetrante ritmo di morte , che a guisa di anomala fioritura , riempie il giardino proibito del carnevale.
 
              
              
                             TRA  MITI e VICENDE 
 Di Umberto Piersanti 
               Tre volti ha Bacco, tre forme dell’essere e dell’immaginario:  verso l’alto, nella terra e sotto di questa. Tre volti enigmatici  ma anche normali e composti: il mito è assoluto e lontano, ma pure  presente e quotidiano. Attorno ci sono pampini verdi e rossi, il  piacere verde delle foglie, il piacere rosso del vino.  Mirta Maranca vede le cose da prospettive diverse, ma la carica  mitica e simbolica connota comunque il suo lavoro. E poi i colori:  quelli di Bacco forse più reali e riposati di altri; ma un azzurro  inquietante e dei bagliori lividi circondano i neri uccelli che,  oltre la morte, accompagnano Diomede : neri uccelli che furono i suoi  fedeli compagni di battaglie e di viaggi . Il mito ci racconta  vicende remote e fantastiche ma che ci invadono e ci premono dentro  più delle opere e i giorni, delle faccende quotidiane attraverso le  quali scorre la vita. Un giorno, magari molto vicino, Mirta Maranca abbandonerà il mito  e ci racconterà storie più quotidiane  e più vicine: ma non potrà  perdere quel sorriso un po’ enigmatico e malinconico presente nel  suo bel volto, non potrà mai tralasciare quel senso inquieto e  fantastico col quale si avvicina a persone, cose  e vicende. La  Maranca ha una sostanziale impossibilità di accostarsi in modo  quieto e pacificato al reale: lei è tra quegli artisti che non si  interessano alle “ briciole nel taschino”, che non raccontano mai  in modo minimale; ho visto un suo quadro del 2000 che rappresenta  degli iris: dunque un brano di realtà quotidiana, senza dei, eroi o  particolari vicende. Eppure una fiamma viola li accende, ne fa  qualcosa di intenso, assoluto e diverso: una carica trasfiguratrice è  in questi fiori, con una forza altrettanto intensa di quella che  investe la vicenda di Orfeo. Sì, Orfeo classicamente composto nel  suo bianco classico e statuario dentro un cielo che se non è proprio  azzurro, brilla d’ un viola leggero e pacificato: ma non avevo  visto una riga rossa, il sangue che stillava dal suo collo, la sua  fine dolorosa e l’apoteosi tra le sfere del cielo. Nella pittrice  pescarese assistiamo sempre a questo intreccio inestricabile tra la  pienezza delle cose, tra le pulsioni del sangue e della vita e il  nero dell’assenza e della perdita.  I fili che circondano il volto  di Aracne e quelli delle Parche sottoposti alla continua minaccia  delle forbici, stringono e assediano la vicende degli uomini che non  possono trovare scampo neppure nella protezione degli dei anche loro  soggetti ad una forza che li investe e li trascende. Eros nasce dalla  pienezza dell’ uovo da sempre la più perfetta e armonica delle  forme: al rosso della sua figura si contrappone lo scuro di un  gigantesco pipistrello che lo stringe e lo sovrasta. Mirta mi parlava  di un mondo soprasensibile, ma non era Eros ad occuparlo bensì quel  gigantesco e terrificante pipistrello. Le forze che ci circondano  sono spesso forze ctonie, oscure e minacciose:  forse Mirta non ne ha  una grande paura ma ne subisce il fascino o forse questo fascino è  figlio di una paura sublimata. Attraverso il mito la pittrice  abruzzese  ci racconta l’ eterna vicenda dell’ uomo che passa fra  strade di luci e colori continuamente minacciato dal buio delle cose  e della mente: dove va non si capisce bene, un po’ come l’  uccello nero di un quadro di Mirta;  qualcuno potrà vederci una  strada senza uscite, ma noi preferiamo pensare che la forza della  luce e i colori delle cose aprano comunque un varco,  rappre- sentino  comunque una qualche speranza o magari una sofferta felicità. 
 Le atmosfere emozionali di Mirta Maranca. Rocco Chimera A volte, il più delle volte ormai, il nostro sguardo si fa 
              frettoloso, com’è il nostro essere uomini adesso. Sempre 
              di corsa, sempre in apprensioni, tra spot televisivi e l’ 
              overdose di notizie stampa. Noi non ci abbandoniamo più al 
              senso della lentezza. Eppure, parafrasando un poeta amico nostro, 
              è la lentezza la cosa che più ci fa assaporare il 
              gusto culinario della vita.
 Milan Kundera ne fece un monumento indelebile, regalando ai posteri 
              un libro straordinario come La lentezza per l’appunto. Altri, 
              pur non aspirando a meritati Nobel per la letteratura, parlano della 
              lentezza pensando ai riti, ai gesti, alle azioni del quotidiano 
              e delle abitudini che le generazioni del ceppo contadino avevano 
              nel vivere al ritmo dolcemente obbligato delle stagioni. Insomma, 
              la summa teologica di questo vivere delinea in tutta lucidità 
              di come ci fosse il tempo per fare ogni cosa; quando nell’attuale 
              modernità sembrerebbe mancarcene sempre. Ed è guardando 
              i quadri di Mirta Maranca, la giovane artista pescarese, quelli 
              dedicati alle genti del Nilo e all’immenso, per certi versi 
              ancora misterioso e inesplorato, continente chiamato Africa che 
              capisco noi abbiamo perso qualcosa in questi ultimi anni: il piacere 
              dell’osservazione più profonda.
 L’osservazione che va oltre i semafori e gli ingorghi stradali 
              della città, quella osservazione che ci fa sentire inadeguati 
              in una civiltà che corre verso mete impreviste, chiare a 
              pochi; quella stessa osservazione che ci fa vivere le vite degli 
              altri, per dirla con Ferdinando Camon a proposito dell’impunito 
              vizio della lettura.
 Nel contempo mai avrei immaginato che città sempre in guerra, 
              territori devastati dalla fame e dalla siccità o, al contrario, 
              dalla violenza delle intemperie, potessero toccare le corde altre 
              di un artista tanto da apporne l’immaginifico filtro della 
              creazione personale e fare sì che uomini, donne e cammelli, 
              tutti che sembravano pennellate vaganti nello spazio, fossero per 
              sempre fermati nelle tele in momenti per lo più di quiete, 
              di festa, di austerità.
 Mirta Maranca lo ha fatto; e lo ha fatto senza portare allo stremo 
              il senso crudele del termine Realismo; abbandonandosi, quindi, ad 
              una graziosa pensosità che cerca di fermare i momenti più 
              sereni di una società che è quella che ciascuno vuole 
              per la propria terra. Và e innalza la tua Ilio alle stelle, 
              fu detto. Ciò perché il tema della mostra: Africa, 
              incontri e testimonianze è suo sigillo, difficilmente percorribile 
              da altri, giacché tutto è visto attraverso il timido 
              candore dei suoi occhi. Costei è come i suoi quadri, è 
              tutt’uno con i suoi quadri, non è un modo dire o di 
              cantare peana all’artista, mi si creda, per formazione non 
              ne saremmo neppure capaci.
 Ella ha quella tranquillità apparente, che presume la tempesta 
              dopo, e quindi quella sana inquietudine d’artista senza quale 
              non potrebbe creare. E’, per l’ennesima volta, il rinnovarsi 
              della similitudine secondo cui il mare, pur essendo calmo in superficie, 
              è in profondità percorso da innumerevoli e impetuose 
              correnti.
 Tele straordinarie come Vivi! Ma…, nate da un impulso puramente 
              emotivo, sono una sorta di rappresentazione irreale della vera condizione 
              di vita della donna africana in un mondo sicuramente atroce, di 
              sottomissione agli uomini, di penuria d’acqua, di non potere 
              trovare tante volte lo stretto necessario che permetta la sopravvivenza 
              stessa dei propri figli. Una eroina imprigionata, come nel mito 
              d’Aracne, in una gabbia di ragnatele, in un groviglio di situazioni 
              aberranti che le impediscono di uscirne , di ritrovarsi.
 Eppure la forza dell’artista, il vigore creativo, non sta 
              solamente nelle opere sofferte, anzi. La sua cifra è prevalentemente 
              quella colta nel momento più intimo e sereno che, per tal 
              motivo, è universalizzato, magari senza volerlo, da chi compone.
 Difficilmente troveremmo dal vivo le antilopi che guardano curiose 
              la bellezza estasiante del soggetto principale dell’opera: 
              Ritratto di donna senegalese. Come difficilmente qualcuno rappresenterà 
              mai la solitudine della vecchiaia Sulla via di Karnak nelle sembianze 
              di un anziano signore, coperto da indumenti della sua terra, che 
              cammina cercando ciò che è necessario per potere vivere. 
              La solitudine è una strana compagna di viaggio in tutte le 
              terre e per tutte le ere.
 Queste tele, però, sono perché l’autrice le 
              ha intuite e poi volute così. Non si è risparmiata, 
              come sempre, nella ricerca della sua cifra che è principalmente 
              colorista con un approdo sentito alla poesia del tempo. A partire 
              dal mito, ovvero il posto da dove è iniziata la sua sperimentazione. 
              Ne La memoria di Diomede il solo elmo è rimasto a rappresentare 
              la giustizia di chi, non avendo avuto le armi di Achille, è 
              morto a causa dell’immane dolore. Solo i gabbiani nella foschia 
              scura del tramonto ne perpetueranno il ricordo ogni giorno. Poesia 
              e colore, la poesia del colore tra mito e semirealtà, artifizio, 
              viaggi e scoperte, pane e sangue dell’arte della Maranca.
 C’è, però, un gioiello incastonato nell’anfratto 
              più profondo della sua anima, quello che nessuno può 
              vedere giacché tutto suo, talmente interiore da essere impercettibile 
              ai più e a tutti; e cioè la immane sete di emozioni 
              che è l’unica via a cui si abbandona e ne segue istintivamente 
              i dettami.
 Al di là di quella bellezza paventata come ricerca dei grandi 
              artisti che si dividono tra quelli che la creano e quelli che la 
              scoprono nel creato; al di là dei ragionamenti, più 
              o meno avulsi, di chi fa del suo travaglio, dei suoi dubbi, della 
              sua quiete disperazione del vivere la base della propria opera; 
              al di là di tutto ciò che ha guidato negli anni gli 
              artisti alla ricerca dell’unico spirito che travalichi gli 
              anni per vivere per sempre; ciò che sentiamo di dire è 
              che Mirta Maranca, nell’enigma delle certezze, siano essi 
              la lettura di un libro o un viaggio nell’Egitto, che le recano 
              le atmosfere emozionali per cui prende i pennelli, i colori e la 
              vita e ne dipinge contorni e sfumature nelle tele da conservare 
              come se fossero cassetti di mobili, ella cerchi invero l’immortalità; 
              però non per sé, ma per i suoi dipinti.
 Il filo sottile della perdizione 
              e dell’ estasi. Franco Spena
 
 Un giorno Orfeo si trovava con degli amici vicino 
              a un corso d’acqua. D’un tratto si sentì un fruscio 
              che increspò la superficie dell’onda. “Sarà 
              stato qualche uccello”, disse uno dei compagni. “No” 
              rispose Orfeo, “ E’ Febo Apollo che ci è passato 
              accanto”. Al di là della possibile o impossibile verità 
              di questo frammento romanzato,l’esempio mi serve per richiamare 
              l’attenzione sullo sguardo. Orfeo è l’immagine 
              dell’artista e del poeta capace di andare oltre l’esercizio 
              quotidiano del vedere per cogliere della realtà quella parte 
              infinitamente vicina e irraggiungibile e, nello stesso tempo distante 
              che vive accanto a noi, che fondamentalmente costituisce la nostra 
              anima segreta e direziona i nostri passi e il nostro modo di vedere 
              e di sentire. Una realtà probabilmente senza tempo nella 
              quale il prima e il poi non esistono e tutto vive la magia di un 
              eterno presente. E’ la dimensione segreta che si rivela, che 
              apre le porte solo a chi ne possiede la chiave,“lo sguardo”,e 
              Orfeo, appunto, riesce a cogliere, come l’artista, le immagini 
              segrete che stanno oltre le cose, le parole che percorrono l’aria 
              andando oltre il tempo, le forme di pensiero e di espressione che 
              aleggiando di mistero, coniugano il senso dell’origine col 
              perenne futuro che ci trascina e avvolge.
 Mirta Maranca, penetrando nel magico mondo del mito, crea un repertorio 
              immaginifico che superando il presente che forse non esiste,conduce 
              la riflessione all’origine del tempo, scavando all’interno 
              di se stessa, e di noi anche, percorsi misteriosi all’interno 
              dei quali ogni forma diventa un simbolo. Un simbolo, che affonda 
              le radici nel mito, da vivere come qualcosa di presente ,e inspiegabile, 
              che tuttavia carica l’esistenza di profonda verità.
 I suoi personaggi, pensati e sognati come misteriosi compagni di 
              viaggio di una vita parallela all’interno della quale soltanto 
              il suo sguardo sa leggere, facendo di ogni opera un plot narrativo 
              appartenente ad un unico filo conduttore che inesorabilmente ci 
              conduce all’ inquietudine di un tempo presente che rischia 
              di cancellare dalle nostre aspirazioni persino l’utopia e 
              il sogno.
 Sfilano così i suoi personaggi in un palcoscenico onirico 
              nel quale il protagonista è il colore, caldo e intenso, raffinato 
              negli accostamenti tonali, che pervade la scena di una surrealtà 
              animata dai fantasmi senza tempo.
 Emerge dalle onde la profonda solitudine della figura decapitata 
              di Orfeo, immagine metafora dell’artista, il cui canto è 
              il risultato di una perdita, di una diversità che lo fa vate 
              e martire.
 Mirta Maranca allestisce i suoi teatri di apparizione e orchestra 
              il colore quasi per gesti, per pennellate fluide che, piuttosto 
              che definire, danno alle figure il senso di un’apparizione 
              come per incantamento. Quello stato di incantamento che sopravviene 
              quando è proprio lo sguardo dell’artista che , attraverso 
              i suoi segni, realizza un magico rito, mettendo in luce il nostro 
              misterioso mondo interiore, facendo cogliere e vivere anche la realtà 
              come storia perduta nel tempo e spazi di visioni che continuano 
              a destare meraviglia e sorpresa.
 “ Dove credete siano andati gli unicorni, gli ippogrifi dagli 
              occhi dolci e mansueti, le sirene gentili e aggraziate?” Dice 
              il filosofo Ermanno Bencivenga?. “In nessun posto: sono sempre 
              qui.E’ solo che non li vediamo…”.
 
 
    
 vai alla pagina 
              successiva   |